Il Vietnam del Washington Post




La Guerra del Vietnam, combattuta tra il 1955 e il 1975, si inserisce nel quadro geopolitico più vasto della Guerra Fredda tra le due superpotenze mondiali.
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, difatti, avvenne la spartizione del globo in due sfere di influenza politico ed economica. Churchill parlò di una cortina di ferro, che era scesa sull’Europa, dividendola in paesi filoamericani, allineati dell’occidente; e paesi filocomunisti, alleati della Russia e della Cina.
La Guerra Fredda tra Usa e Urss, venne detta così proprio perché non fu un conflitto combattuto attraverso uno scontro diretto tra le due superpotenze, che si tennero sempre fuori dai confini naturali dei loro rispettivi ambiti civili e politici fissati dalle cartine geografiche. L’equilibrio, fondato sul terrore, si mantenne precario attraverso la corsa agli armamenti, e successivamente, alla conquista dello spazio.
I punti caldi in cui si sviluppò la Guerra Fredda furono Cuba, per la crisi missilistica; la Corea ed il Vietnam.
Il Vietnam venne diviso in Vietnam del Nord, filocomunista; e Vietnam del Sud, filoamericano.
Negli anni cinquanta i Vietcong e i Khmer Rossi attaccarono il Vietnam del Sud, per piegarlo alle ragioni del filocomunismo contro i paesi allineati dell’occidente capitalistico e filoamericano. Fu così che Cina e Russia presero le difese del Vietnam del Nord, e gli Stati Uniti scesero in campo per difendere la causa democratica.
I presidenti americani più coinvolti nel conflitto furono Lyndon Johnson e Richard Nixon. Ma si comprese subito che la guerra in Vietnam stava costando un caro prezzo agli Stati Uniti, e la prudenza militare e politica avrebbe suggerito di ritirare le truppe, dal momento che lo scontro si stava tramutando in una verosimile sconfitta per l’esercito americano.
Ciononostante, Nixon pretese di raccontare al mondo un’altra storia, fatta di successi inesistenti e di probabile vittoria statunitense. Cosa che non fu. Anzi, la Guerra del Vietnam mostrò il nervo scoperto della superpotenza occidentale che, per la prima volta in assoluto nella storia moderna e contemporanea, rese palesemente visibile al mondo intero che gli americani non erano imbattibili, come invece si voleva far credere.
Fino a quando Daniel Ellsberg, economista e uomo del Pentagono, non divulgò, nel 1971, un rapporto segreto, di 7000 pagine, che dettagliavano l’implicazione militare e politica degli Stati Uniti nelle operazioni di guerra.
Il primo giornale a rivelare lo scoop fu il New York Times, cui venne però impedito di proseguire la pubblicazione con un’ingiunzione della corte suprema.
Il Washington Post, invece, grazie al coraggio del suo editore, Katharine Graham, e del suo direttore, Ben Bradlee, rimise mano ai documenti rilanciando il rapporto, e cambiando la storia del giornale.
Da quel momento la libertà di stampa e di informazione divennero i principi fondamentali e i pilastri cardine della deontologia professionale del giornalismo.
Ma soprattutto, da quel momento, cambiò la narrazione storica della Guerra del Vietnam, perché fu raccontata la verità dei fatti al mondo intero.
Questa incredibile vicenda, che narra avvenimenti realmente accaduti, è oggi proposta al pubblico del grande schermo in un film straordinario del 2018, The Post, per la regia di Steven Spielberg, con Tom Hanks, ed una favolosa Meryl Streep.
Il film presenta almeno tre possibili spunti di riflessione, che si possono intravedere nella storia della Guerra del Vietnam, così come essa è attualmente narrata nei libri di storia; nel ruolo delle donne in posizione di comando, che sono spesso capaci di prendere delle decisioni impegnative e rischiose che, a volte, nemmeno gli uomini loro colleghi si sentono in grado di sostenere; ed infine nel tema della libertà di stampa, sancita dall’articolo 21 della Carta Costituzionale Italiana, che recita «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».

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